Il PCI a Cinisello, una scuola di vita con la porta sempre aperta
Quando con la mia famiglia ci trasferimmo qui, a Cinisello Balsamo, avevo poco meno di 15 anni. Anno, 1961. Venivo da un paese del Veneto. Si chiama Pontelongo, in provincia di Padova. Un luogo a cui resto molto affezionato. Un posto dove ho cominciato a giocare a calcio, ascoltare musica e a discutere con gli amici e ogni domenica accompagnare lo zio Mario a diffondere “l’Unità” e “Vie Nuove”. Discutevo con gli amici. Debbo dire, in una dimensione assai surreale, considerata l’età imberbe con annesse incapacità d’analisi. Perciò ci si limitava a fare i “tifosi”. Da buon predestinato, mi trovavo in solitaria minoranza.
A Pontelongo i comunisti erano pochi e i miei amici tutti iscritti all’Azione Cattolica. Io stesso venni apostrofato come un feroce “vai via, bolscevico” pronunciato dal prete che comandava il paese, quando mi presentai in ritardo a scuola proprio il giorno dell’invasione dell’Ungheria. Fatte queste premesse, si potrà immaginare la mia incredulità quando appresi che Cinisello Balsamo aveva una giunta di sinistra PCI-PSI. Non mi pareva vero. Con la graduale crescita cominciai a valutare le questioni, non solo da un punto di vista numerico. Probabilmente causa il repentino spaesamento, mettevo in secondo piano il fatto di “trovarmi in maggioranza”.
Osservavo come una città, così bene amministrata, fosse più avanti dei suoi stessi cittadini. A dispetto dei cartelli con scritto “Non si affitta ai meridionali” tutti trovavano un luogo dove dormire. Vedevo immigrati dal sud e dal nord (come noi) trovare rapidamente un alloggio, magari inizialmente temperato dall’ospitalità di un parente. Solo successivamente mi resi conto quanto le Cooperative avessero svolto un ruolo fondamentale.
Nel 1962 mi iscrissi alla Fgci. Segretario, Achille Ochetto. Entravo così in contatto con gli esponenti locali. Chi burbero, chi affabile, certamente tutti nel PCI perché lo ritenevano una leva per fare gli interessi di chi, da solo, non avrebbe potuto difendersi. Per quanto mi riguarda questo spirito che oserei definire “cavalleresco” è sempre stata la piattaforma ideale su cui mi sono poggiato. Penso per colpa delle mie letture da bambino. E questo ho trovato nei comunisti cinisellesi i quali svolgevano una prassi niente affatto donchisciottesca.
Allora non sapevo dove si trovasse Ellis Island, non conoscevo nulla delle migrazioni nel mondo, in e dall’Italia. Cinisello Balsamo mi fece capire molte cose. Non sentirsi accolti inaridisce l’anima e lo spirito. Per fortuna, qui ho trovato i comunisti. Non facevano opere di bene come una qualsiasi associazione di carità. Ti spingevano a lottare per acquisire e ampliare i diritti. Qui, in città erano tanti, gli operai, i lavoratori. Sono sicuro, molti di loro ricorderanno come si comportavano i comunisti in fabbrica. Mai un ritardo, mai un errore nello svolgere la professione, mai una richiesta per sé. Spesso erano coloro che in fabbrica stavano nella Commissione Interna e fuori facevano i consiglieri comunali o gli assessori. Oppure attaccavano manifesti, diffondevano la stampa e i volantini, spendevano le ferie per consentire lo svago delle Feste Dell’Unità alle famiglie dei compagni. Sempre in servizio e al servizio,
degli altri.
Nei cento anni del PCI che oggi celebriamo ci sono stati momenti di travaglio e di dissenso. Non tutto è lineare, specie in una comunità di persone “che pensano”. Io stesso, manifestai la mia lontananza dall’atteggiamento del partito, dopo il ’68. Passai al “Manifesto”. Tuttavia, sul posto di lavoro e anche nei momenti bui della nostra Repubblica (penso al terrorismo) mai si spezzò il filo unitario che ci legava consentendo sempre efficaci azioni comuni. Venni riaccolto, anni dopo. Senza costrizione all’autocritica, bensì con la consapevolezza che stesse maturando un’altra stagione che avrebbe portato la sinistra a partecipare, da protagonista, alla guida del Paese.
Ho capito che quelli del PCI sono state persone che pur nel travaglio negli anni, dei sacrifici provocati alle loro famiglie (poiché questo è sempre accaduto) hanno colto la necessità di leggere, di studiare (da autodidatta) di far apprezzare i loro sforzi dai compagni, ottenere il rispetto degli avversari fronteggiando i pericoli di perdere il lavoro. Sapendo che facendo gli interessi degli altri facevano anche i loro interessi, poiché un aumento salariale per tutti acquisiva un sapore più dolce, diverso da un premio elargito in modo discriminatorio dal padrone
di turno.
Uso spesso un esempio per far capire quanto profonde siano la stima e la commozione che si prova nel salutare un vecchio comunista. Io ebbi la fortuna di conoscerne molti, nella sede di via Cavour e in quella di via Carducci. Senza esitare si può cogliere un aspetto, rivedendole nelle persone dei cento anni trascorsi: sono le donne e sono gli uomini che ogni mattina, alzandosi dal letto, potevano guardarsi allo specchio senza troppo vergognarsi.