Una Pietra di Inciampo per Giovanni Vergani, deportato a Mauthausen
Si conclude con la testimonianza di Alessandra, nipote di Giovanni Vergani, il racconto a più voci dei parenti dei deportati ai quali quest’anno verrà dedicata una Pietra d’Inciampo.
Vorrei tanto raccontarvi una storia, così come è stata raccontata a me. E’ una storia a più voci. E’ una storia che mi accompagna da quando ero bambina, tanto che, francamente, non riesco a ricordare bene chi sia stato il primo a raccontarmela. Ricordo con lucidità di aver preso consapevolezza di essere la pronipote del deportato Giovanni Vergani quando la mia maestra in 5^ Elementare ci spiegò l’orrore dei campi d concentramento e ci aprì gli occhi, senza nessuna esitazione, sulle sofferenze e le violenze subite dai deportati politici della nostra città che sacrificarono la vita in nome di quella libertà di cui noi abbiamo potuto, almeno fino a qui, ampiamente godere e che forse proprio oggi riusciamo ad apprezzare ancora di più….
Furono pagine di libri sfogliati avidamente, immagini destinate a restare impresse per sempre nella mente, attraverso la porta del cuore. Ricordo in particolare il non proprio banale passaggio con il quale ho realizzato che la brutalità della storia è passata anche attraverso la mia famiglia: “Sì, è proprio lui, è lo zio Giovanni, il fratello del nonno, il papà della Maria”. Ho sempre cercato di sapere di più, ma nella mia famiglia i testimoni diretti non hanno mai voluto raccontare. Difficile per me oggi capire il perché di questa reticenza; forse perché erano ancora segnati profondamente dalla sofferenza, sotto l’effetto di uno sbigottimento che degenera in una forma di pudore misto ad imbarazzo, o forse perché gente semplice, il cui DNA, forgiato dall’origine contadina, rendeva ogni cosa niente, anche il sacrificio più grande…
C’è tanto implicito, “non detto”, o forse proprio non esprimibile a parole, dietro a certe storie famigliari: quello che di Giovanni so con certezza è che non ha mai parlato con i suoi della sua attività antifascista, forse anche per prudenza, così come so che era una persona generosa; mio nonno non si dimenticò mai degli aiuti ricevuti dal fratello, tanto che quando la figlia Maria rimase orfana le assicurò sempre il sostegno e il calore della sua famiglia. Fu una perdita che non si può comprendere senza averla vissuta, uomini e donne inghiottiti nel nulla, esperienze tragiche avvolte nel più assoluto silenzio: una traccia indelebile spesso percepita come un vuoto da chi è venuto “dopo” e che ne ha certamente vissuto il peso. Da sua figlia ho conosciuto le circostanze della sua deportazione, che ho poi riletto nel tempo, come lo stesso triste refrain di molte altre storie come la sua; è incredibile come l’essere umano, messo di fronte al limite, riesca ad esprimersi usando sempre le stesse tragiche parole: alla moglie che gli propone la fuga nei campi, lui caparbiamente si oppone con un rifiuto tanto drastico quanto coerente: “Io non ho fatto niente!” Ancora il niente di prima… o magari più semplicemente è proprio vero che “la storia non la comprendi subito, mentre accade” (cit. C. De Gregorio).
Scampoli di memoria, racconto a più voci, particolari intensi che una volta narrati non ti lasciano più, la mamma di Giovanni che torna da messa e nota il trambusto, qualcuno forse tradisce la segreta impressione di quello che sta per accadere e lei commenta amaramente, accompagnando il pensiero con una preghiera di madre: “Povera gent”; riscalda il cuore sapere che questa preghiera ha certamente accompagnato, insieme agli altri, proprio suo figlio Giovanni.
Qualcuno mi ha poi raccontato del passaggio a Milano e poi a Bergamo e poi… il nulla. E la storia prosegue, ma non più con le voci familiari dei “miei”, ad esse si aggiungono le voci di altri testimoni, voci autorevoli, non più solo racconti… E dal profondo del cuore voglio ringraziare queste voci così generose.
Penso a Peppino Valota e alla sua ricerca storica, agli amici dell’Associazione Ventimila Leghe e a chi mi ha permesso di ricostruire, seppur per sommi capi, il percorso di Giovanni: il trasporto dalla stazione di Bergamo su vagoni piombati e, dopo l’arrivo a Mauthausen, l’assegnazione definitiva al sottocampo di Gusen. Nessuno ha mai saputo le circostanze della sua morte, da Tarcisio Vergani, deportato insieme a lui e sopravvissuto, la mamma di Giovanni apprese che era morto a Gusen in seguito ad un edema alle gambe (nei documenti fu indicata come causa della morte: “insufficienza cardiaca e nefrite”).
E la storia continua… con il mio/nostro Viaggio della Memoria nel maggio 2018, ma qui cessano i racconti e le voci, si fa spazio il silenzio per comprendere e farsi attraversare da quell’intensa partecipazione emotiva che si è tradotta per me in una profonda esperienza di comunione e condivisione, perché quel viaggio l’ho fatto con i miei alunni del Ciofs… Grazie a loro sono riuscita a non farmi vincere dalla grande nostalgia per le voci di chi non è riuscito ad arrivare fino a lì e questa storia non la può raccontare più. A quelle voci oggi vorrei dire: “Vi porto sempre con me, nessuno escluso e niente di quello che mi avete raccontato è andato perduto. Perché, chissà attraverso quale meccanismo miracoloso, il tempo non è riuscito a cancellare del tutto le vostre voci dalla mia memoria e ancora posso sentirle esprimersi nel linguaggio unico di cui è capace il cuore: un misto di parole e cenni del viso e tanto affettuoso dialetto. Alle vostre voci se ne sono aggiunte molte altre e siamo diventati un coro, la vita che mi avete raccontato ha vinto qualunque sacrificio, perché oggi siamo qui a celebrare la posa di una pietra, che sarà d’inciampo per sempre. Non vi dimenticheremo, noi abbiamo scelto di ricordare.”
Per approfondire la storia di Giovanni Vergani:
https://www.comune.cinisello-balsamo.mi.it/pietre/spip.php?article286