Scomparso a 100 anni Settimo Buratti, fu deportato dai nazisti
Lo scorso 3 dicembre la città ha salutato un suo concittadino molto conosciuto e amato nel quartiere Garibaldi dove viveva. Settimo Buratti era nato a Spino d’Adda il 9 maggio 1921, se n’è andato a 100 anni.
La sua gioventù fu attraversata dal dramma della guerra e della deportazione. A quel tempo era residente nel Comune di Sordio-Melegnano e faceva il meccanico. Fu chiamato alle armi come soldato del 361° Gruppo – 346^ Brigata Vipacco. A tale proposito raccontava: “L’esperienza della guerra e della prigionia è stato un capitolo importante della mia vita. Io sono l’ultimo di sette figli (mi chiamo Settimo proprio per questo); allora c’era una forte mortalità infantile, siamo sopravvissuti in quattro: due maschi e due femmine. Quando mio fratello è morto in Russia, essendo mia madre vedova (Buratti era orfano di padre dall’età di sei anni [NdR]), sono stato mandato in congedo, ma ci sono rimasto ben poco, da Natale a Pasqua, perché sono stato subito richiamato e spedito in Jugoslavia”.
La sua tragica vicenda ebbe inizio dopo l’8 settembre 1943, giorno dell’Armistizio. L’Italia subì l’occupazione nazista e l’esercito italiano, colto di sorpresa, senza ordini chiari e allo sbando, si trovò alla mercé degli invasori. Si doveva scegliere se allearsi con loro e con la Repubblica Sociale Italiana, oppure essere deportati. La scelta di Buratti comportò il suo arrestato, che ebbe luogo a Mestre il 14 settembre 1943.
Alcuni cercarono di resistere e morirono combattendo o vennero fucilati, altri cercarono di tornare a casa, aiutati dai civili, altri ancora si unirono ai partigiani. Circa un milione di militari cadde in mano nemica. Rimasero per poco tempo in lager di transito, dai quali alcuni riuscirono a fuggire, mentre altri presero accordi con i nazisti; la parte restante fu deportata nei lager del Terzo Reich. Alcuni militari trovarono la morte durante i trasporti effettuati in condizioni disumane. Quelli che giunsero a destinazione, immatricolati come I.M.I. (Internati Militari Italiani) con un numero e la sigla del campo su una piastrina, vennero presto defraudati del loro status di “prigionieri di guerra” e delle conseguenti tutele, e marcati come “internati militari”, una qualifica non prevista dalle convenzioni internazionali. Furono considerati “disertori badogliani” in attesa di ravvedimento. Con insistenti pressioni, fu chiesto loro di combattere a fianco dei tedeschi. L’88% dirà NO a qualsiasi forma di collaborazione, affrontando sofferenze e privazioni.
Buratti venne deportato a Torun (Polonia), dove rimase dal 20 settembre fino al novembre 1943; lì il suo nome divenne un numero: “matricola 35962”. Successivamente fu trasferito a Breslau, sempre in Polonia, nel campo di internamento 60/09 M. Stammlager VIII C Sagan, dove rimase fino all’agosto 1944, lavorando come manovale coatto presso la fabbrica Linche Ofnam. Il 28 agosto 1944 il suo status fu modificato in “lavoratore civile” e venne occupato presso la fabbrica Krupp di Wüstegiersdorf . In quel periodo scrisse una lettera alla madre chiedendole di inviargli degli abiti perché, pur potendo finalmente uscire, si vergognava in quanto aveva indosso da un anno la stessa divisa lacera: “Ora che sono libero, non esco io perché sono vestito come un mendicante”. La liberazione avvenne il 6 maggio 1945 ad opera dell’Armata Rossa e Buratti rientrò in Italia il 20 giugno 1945.
Il suo racconto di quel periodo è drammatico: “La fede mi è stata d’aiuto, ma ad un certo punto ho anche gridato “Signore adesso basta!”, perché eravamo trattati come bestie, c’erano solo sporco e fame. Alla sera, dopo una giornata di lavori forzati, arrivava un pentolone di acqua calda colorata (the?), e pensare che a pranzo avevamo mangiato semplicemente un mestolo di pasta! Questo era il nostro cibo. Una volta, a causa dello sporco e dei parassiti, mi era venuta una forte infiammazione alle braccia, non riuscivo a stare in piedi, ma mi hanno obbligato a lavorare lo stesso. I miei compagni, vedendomi in quelle condizioni, hanno protestato e si sono rifiutati di lavorare, così finalmente mi hanno mandato in infermeria. Cosa non ho visto lì! C’era ricoverata gente con il tifo petecchiale, tutti insieme, senza nessuna protezione. Una sera un ricoverato ha iniziato a gridare per i dolori, è andato avanti per ore a gridare, poi verso l’una o le due di notte ha smesso improvvisamente; mi sono avvicinato: era morto. Avevo con me un piccolo crocifisso, gliel’ho messo sul petto e ho recitato una preghiera. Era morto, ma il crocifisso si muoveva, era per i tanti pidocchi che stavano devastando quel povero corpo”.
Ci sono voluti anni di silenzio e di sofferenze mai raccontate, nemmeno ai familiari, per restituire dignità alle memorie della deportazione degli IMI; una storia ignorata per anni, nonostante coinvolse circa 650-700 mila persone. La nostra città conobbe la vicenda di Settimo Buratti nel 2009, quando il suo racconto fu affidato a lettere, foto e documenti da lui generosamente messi a disposizione per la mostra Schiavi di Hitler. L’altra Resistenza, organizzata dall’Amministrazione comunale.
I figli ricordano che Settimo, rammentando con le lacrime quel periodo, diceva: “Quasi due anni in terra straniera, deportati contro la nostra volontà, soffrendo la fame, i pidocchi, le botte, la solitudine, la paura del domani, ma soprattutto la mancanza dei cari, delle sorelle, della mamma.”
Subito dopo il ritorno dal lager si iscrisse ad Azione Cattolica e dall’aprile del 1948, periodo delle prime elezioni della storia repubblicana, si impegnò in politica. Fece parte anche del gruppo Cenacolo, con una trentina di altre persone della Diocesi di Lodi, e fu in quel periodo presidente di quattro gruppi di Azione Cattolica maschile.
Lavorava alla Pirelli e da Melegnano veniva in bicicletta fino alla Bicocca. Nel frattempo Buratti si era sposato ed erano nati due figli. Con la famiglia si trasferì a Cinisello Balsamo, nel villaggio Pirelli di via XXV Aprile: “Quando siamo venuti a Cinisello ed è stata fondata la nostra Parrocchia S. Pio X, nel 1958, si è costituito subito il gruppo di Azione Cattolica. Eravamo in tanti, abbiamo lavorato senza sosta per mettere insieme la nostra comunità e abbiamo sostenuto il parroco.” Fin dagli albori nella parrocchia c’era la compagnia teatrale C.A.O.S., con il gruppo femminile e quello maschile, guidato dalla sapiente regia di Angelo Cattaneo, assistito da Settimo Buratti. Dopo la fine della guerra la sua è stata una vita intensa e piena di soddisfazioni; andava particolarmente fiero del riconoscimento ricevuto nel 2014 da Azione Cattolica.
Con la sua scomparsa se ne va un pezzo importante della storia della nostra città. Quest’anno, in occasione del Giorno della Memoria, il nostro giornale aveva dedicato un approfondimento alla vicenda degli I.M.I. e l’A.N.P.I. (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) affronterà nelle scuole proprio il tema della deportazione degli Internati Militari. Sarà questo un modo per ricordare la vicenda di Settimo Buratti e di tutti gli altri deportati.
Un commento
Bella ed emozionante la storia di Settmo. I nostri giovani dovrebbero ammirare queste persone che hanno fatto la doria della Ns Libertà e Democrazia. Grazie per questa pubblicazione