22 Novembre 2024

Il giornale di Cinisello Balsamo e Nord Milano

È morto Ernesto “Tino” Castano, grande calciatore balsamese

Tino Castano, era nato a Cinisello Balsamo, il 2 maggio del 1939. Cresciuto nella Balsamese, nel 1956 passò al Legnano. Debuttò a 17 anni in serie B. L’anno successivo approdò alla Triestina. Nel ’58 arrivò alla Juventus. Esordio in Serie A contro il Bari (1-0). Vinse gli scudetti del 1960 e 1961. La Coppa Italia, del 1959 e del ’60. Fra i suoi successi si contano anche la Coppa Italia del 1965 e lo scudetto del 1967 vinto all’ultima giornata sull’Inter di Helenio Herrera. Chiuse la carriera a soli 32 anni, nel ’71, con il Vicenza. Con la nazionale, pur giocando solo 5 partite (più 3 con la nazionale B) partecipò al vittorioso Europeo del 1968. Scese in campo nella celebre semifinale vinta al sorteggio contro l’URSS e nella prima finale contro la Jugoslavia.

Da ricordare: nelle due famose partite, contro i sovietici e nella prima finale, (finita 1-1) con la Jugoslavia, in campo c’erano due cinisellesi: lui, Tino Castano e Pierino Prati.

Lo ricordiamo con questa intervista che avevamo realizzato per “La Città”. Fu una cordiale conversazione con un uomo buono e gentile.

“Spero che i ragazzi ritornino a giocare sui prati”

LA ZONA DI TINO CASTANO

(1 aprile 1989)

di Ivano Bison

I ragazzi vanno lasciati liberi di giocare, bisogna lasciarli divertire. Fin da piccoli, appena entrano a far parte di una squadra, subito  vengono inquadrati e irreggimentati nei ruoli fissi, nelle tattiche: assurdo!

Tino Castano ha le idee chiare su questo tema. Sì, proprio il Tino che ha fatto carriera nel calcio, il Tino di Balsamo vecchia gloria della Juventus e della nazionale.

Vede, spero per i ragazzi: ritornino sui prati a giocare, che so…negli oratori, in spazi larghi insomma. Vuol mettere la gioia. Appena fuori dalla scuola noi postavamo due cartelle per fare le porte, poi ore ed ore di partita, tutti dietro al pallone, ognuno con il proprio estro, con l’ebbrezza di rincorrersi. Peccato che gli spazi non ci siano più».

Abbiamo raggiunto Tino Castano, dopo una lunga maratona telefonica, nel suo ufficio di Torino dal quale gestisce un’avviata azienda di recuperi metallici. Ha intrapreso la carriera calcistica lasciando Cinisello molto presto.

Nel ’57 ho cominciato con il Legnano. Sono entrato subito in prima squadra perché si erano infortunati tutti i difensori titolari. I lilla militavano allora in serie B e per me sono stati mesi di importante tirocinio. Poi sono andato a Trieste, tra gli alabardati ho trovato Petris, forse qualcuno si ricorderà di questo giocatore: debuttò in nazionale, quando giocava ancora in serie B. Fu in un’Austria-Italia, 3 a 2 per i bianchi ma Petris segnò un bel goal. In quella stagione fummo promossi al massimo campionato

Tino Castano torna a Cinisello sempre più di rado. Non più di un paio di volte all’anno.

Per andare al cimitero, per salutare i parenti. Non è più la Cinisello che ho lasciato. Adesso è una città e non mi piace trovarla così. Per tutto l’anno vivo a Torino e quando torno vorrei trovare il mio paese com’era. Lo so, può sembrare un discorso anacronistico, ma io non manco mai di fare una puntatina all’oratorio di Balsamo. Anche lì le cose sono cambiate, non è più lo stesso. Devo confessare, quando rivedo quel campetto la nostalgia mi prende la mano. Ci giocavo con miei amici, gente più brava di me con il pallone. Tra tutti ne ricordo un paio: Roberto Albino e Tino detto “el Topin”, c’era anche un terzino che mi entusiasmava, si chiamava Sala, un giocatore per me straordinario. È stato lui a “iniziarmi”, portandomi a giocare nei tornei serali. Ricordo posti incredibili, dove la tecnica contava poco. Io ero molto gracile. Quando bisognava farsi rispettare allora emergeva tutta l’esperienza di Sala”.

Dalla Triestina alla Juventus, alla corte della più blasonata squadra italiana. Il ruolo di centromediano era allora occupato da Rinone Ferrario, conosciuto come “Armadio”. Un vero gigante. I bianconeri erano nel pieno di un ciclo d’oro. Solo sotto la presidenza di Boniperti lo avrebbero ripetuto.

Già, Boniperti. Io debuttai in serie A contro il Bari, vincemmo 1 a 0 e fu proprio Boniperti a segnare. Un giocatore davvero eccezionale. Ma quella Juve aveva anche Sivori, Charles, Nicolè, Stacchini e Cervato. Adesso tutti parlano delle punizioni dei vari Gullit e Matthaus, ma nessuno si ricorda come le tirava Cervato, un difensore. Allora entravamo in campo con la sola incertezza su quanti goal avremmo segnato. È vero sa. Con gente come quella i nostri peggiori avversari eravamo noi stessi, con gli altri non c’era quasi mai partita. Immagino l’obiezione: non abbiamo vinto niente in campo internazionale. Bè approfitto di questa occasione per spiegare una cosa: a noi delle Coppe non interessava proprio nulla! Il motivo? A quei tempi le Coppe venivano viste come un diversivo, quasi un allenamento, era una questione di mentalità. In Italia, intorno a quegli avvenimenti, non esisteva la risonanza di adesso. Vincevamo 4 a 0 contro il Rapid Vienna poi, per il ritorno: uno si dava ammalato, un altro aveva paura dell’aereo, un altro ancora sembrava in gita. Così ci eliminavano. Posso dire, senza tema di smentita che la Juve di allora poteva, con il Real Madrid, disputare più di una finale; tra l’altro noi siamo stati gli unici a battere il Real in casa sua. Non in amichevole, in una partita valida per la Coppa dei Campioni. Sivori segnò una rete delle sue. Nicolè (pur bravissimo centravanti) sbagliò un goal, all’ultimo minuto”.

Castano ha la parola facile, gli piace ricordare quei tempi, anche se non mancano gli accenti autocritici.

«Ci mancava la percezione di cosa sarebbero diventate, le coppe, da lì a qualche anno; non ci mancava la mentalità internazionale. Boniperti era un campione riconosciuto, Sivori e Charles erano stelle di prima grandezza, lo stesso Cervato aveva disputato una finale, sempre contro il Real, quando giocava nella Fiorentina. È andata così e basta”.

Castano ha debuttato in nazionale contro l’Ungheria, in una partita terminata 1 a 1. Nella squadra magiara militavano personaggi come Albert, Tichy e Sipos. Il suo rapporto con la maglia azzurra, causa diversi infortuni, non fu dei più fortunati. Nel ’68 giocò la finale con la Jugoslavia di Dzajic, ma era la prima, quella non contò, poi ripetuta con la vittoria dell’Italia.

È vero: non ho avuto un gran curriculum in maglia azzurra. Però mi sono tolto moltissime soddisfazioni con la Juventus. Una tra tutte e lo dico non tanto pensando agli scudetti. Forse nessuno si ricorda che la prima squadra che ha giocato a zona in Italia, prima della moda olandese, di Sacchi e di Maifredi, è stata la Juventus di Amaral e di Heriberto Herrera. Specialmente il paraguaiano era un professionista

di prim’ordine. A noi allora mancava una punta di livello mondiale: avevamo i Miranda e i Siciliano, adesso il Milan ha Van Basten. La differenza è tutta lì. Heriberto era preso in giro per il suo movimiento”, ma sfido qualsiasi allenatore, del giorno d’oggi, a non praticare, nei fatti, quello da lui predicato. Intanto il professionismo inteso come mestiere e non come appendice al divertimento. Vi ricorderete certo di Cinesinho e di Haller. Vennero alla Juve che non si reggevano in piedi. Haller con 10 kg sopra il peso forma. Heriberto lo fece lavorare in modo scientifico, tanto da consentirgli un prosieguo di carriera assolutamente all’altezza delle sue qualità tecniche. Tutti i giocatori, allora, si lamentavano dei suoi metodi. Adesso che fanno gli allenatori, dicono le stesse cose che diceva lui».

Ha visto molti giocatori, Tino Castano, uno su tutti secondo il suo parere, potrebbe giocare anche adesso, senza paura e senza sfigurare: John Charles.

John era inarrivabile e lo sarebbe ancora oggi. Poliedrico, giocava di destro, di sinistro, di testa è stato il più grande di tutti. Un autentico eroe. Adesso la Juve non è più quella, per i più giovani non è nemmeno quella di Platini. Io andavo allo stadio tutte le domeniche; adesso devo confessare, mi annoio moltissimo. Siamo fuori dal mercato e non c’è molta gente in giro all’altezza del blasone della Vecchia Signora”.

Tino Castano ha concluso la sua carriera nelle file del Lanerossi Vicenza, vi giocò solo per sei mesi. Tornò a Torino ove, per due stagioni, allenò una squadra delle giovanili bianconere.

«Non un lavoro per me, soffrivo troppo in panchina, a soli trentatré anni mi sentivo ancora in grado di giocare, ma la condizione fisica non me lo permetteva. Comunque se qualcosa posso dire ai giovani che vogliono giocare al calcio è, innanzitutto, di sacrificarsi. Non sono cose nuove, lo so, ma bisogna, a volte saper rinunciare a qualcosa dei propri vent’anni per conseguire certi traguardi. Avere l’umiltà di guardare quelli che ti possono insegnare qualcosa. E quelli mi hanno insegnato come camminare in un campo di calcio. Non hanno mai giocato in serie A. Ma è a loro che io devo molto».

Ivano Bison

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