25 Novembre 2024

Il giornale di Cinisello Balsamo e Nord Milano

A cosa (o a chi) serve aumentare le pene per gli scafisti?

di Roberto Cornelli
Professore di Criminologia all’Università Bicocca di Milano

Di fronte all’accusa di mancato soccorso dell’imbarcazione naufragata davanti alla spiaggia di Cutro, che ha provocato una strage di migranti di ogni età che perlopiù scappavano da guerre e regimi oppressivi, la risposta sdegnata di molti esponenti del Governo e della maggioranza che lo sostiene, a partire dalla Presidente del Consiglio, ha spostato la discussione su piani diversi da quello politico.

Per allontanare i dubbi su possibili omissioni o inceppamenti nei soccorsi, si è portato il discorso sulla moralità individuale: Davvero si pensa che abbiamo voluto far morire 60 persone?[1].Seguendo questa linea, l’assenza dell’intenzione di provocare la strage dovrebbe chiudere il discorso sull’accertamento della responsabilità penale, come se non esistessero più i reati colposi, che si verificano a causa di negligenza, imprudenza o imperizia o inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline. Sarà la magistratura a indagare, ma certo questa presa di posizione pubblica, accompagnata da troppi silenzi nell’esprimere vicinanza ai familiari dei migranti morti, è controintuitiva rispetto a ciò che normalmente si dice di fronte a una strage di queste dimensioni.

Siamo sconvolti per quanto accaduto, piangiamo le vittime, ci stringiamo attorno ai familiari, faremo il possibile per accertare le cause di quanto accaduto.

È ciò che ci si aspetta che dica in situazioni simili chi ha responsabilità istituzionali, possibilmente facendo seguire alle parole qualche gesto simbolico o materiale: la presenza fisica al fianco delle vittime, l’assistenza dei familiari nei funerali, il pagamento delle spese di rimpatrio delle salme.

Nulla di tutto ciò è accaduto in questo caso ed è un silenzio di parole e gesti di compassione che andrebbe indagato a fondo ripercorrendo le strade brevi e lunghe che hanno costruito, a partire dagli anni Novanta, la figura dell’immigrato come delinquente pericoloso da trattare come non-personainvisibile (tranne che al sistema penale) e senza diritti. È sullo stereotipo dello straniero che minaccia le nostre regole, i nostri figli, le nostre donne, il nostro lavoro e la nostra civiltà che si è prodotto uno spostamento ideologico ed emotivo di massa su cui si è edificata la fortuna politica di molti. Mostrare cedimenti a questo punto è un po’ come sconfessare il fondamento della propria esistenza politica.

Inoltre, per rispondere a chi sostiene che la strage sia stata l’ennesima conseguenza nefasta della politica di protezione a ogni costo dei confini nazionali dall’invasione degli immigrati, si è percorsa, ancora una volta, la scorciatoia cognitiva della colpevolizzazione dei migranti. Il silenzio della compassione è stato lacerato da una verbosità che sconvolge perché capovolge l’ordine morale. Le frasi utilizzate, innanzitutto quelle del Ministro dell’Interno Piantedosi ma non solo (contano anche le mancate condanne alle macabre parole del consigliere regionale lombardo e giornalista Feltri), sono apparse scomposte, hanno suscitato sconcerto e hanno creato scandalo; chi le ha pronunciate è stato accusato d’insensibilità, d’incapacità e d’ignoranza; le metafore e i parallelismi con altre epoche della storia sono state molte e pesanti; l’ironia sui social media ha messo in evidenza l’insostenibilità logica e morale di certi pensieri. E, tuttavia, quelle frasi che hanno invertito il senso delle cose, nei fatti addossando alle vittime la colpa di essere morte insieme ai loro figli, sono state in qualche modo funzionali a preparare il terreno per un’idea semplice, poi espressa chiaramente dalla Presidente Meloni di ritorno dall’India:

“Continuiamo a fare tutto il possibile per salvare vite. Unica soluzione, impedire le partenze. Non è passato un giorno senza che me ne sia occupata“.

Nella visione di chi governa, dunque, questa strage non sarebbe il risultato, magari non voluto ma certamente prevedibile, di una politica sull’immigrazione che irrigidisce i confini, rende pressoché impossibili i flussi regolari, considera pericolose e da ostacolare le operazioni di soccorso delle navi delle Ong (ma anche, nel recente passato, delle forze dell’ordine), non garantisce corridoi umanitari, tende a impedire ogni forma di assistenza di base ai migranti irregolari (la cd. criminalizzazione della solidarietà), tratta il diritto costituzionale d’asilo come una concessione derogabile e procrastinabile e criminalizza nei fatti lo status di migrante. Al contrario, sarebbe l’esito del fatto che non si è stati abbastanza bravi nell’impedire le partenze, vale a dire la fuga delle persone da guerre, oppressioni, discriminazioni, condizioni di vita indecenti.

Eppure, un ammiraglio in congedo ex portavoce della Guardia Costiera ha riassunto con poche parole il senso politico di quanto è accaduto a Cutro:

“Il peso politico che ha assunto il fenomeno migratorio è diventato tale da marginalizzare l’attività legata al soccorso, un’attività che ormai si è talmente contaminata con le esigenze di protezione dei confini che vengono sempre rappresentate continuamente dalla politica da rischiare di comprometterne l’operatività (…) il soccorso in mare non ammette vie di mezzo, non ammette filtri, non ammette mediazioni, perché in mare soprattutto quando le condizioni metereologiche sono avverse, i tempi sono ristretti, l’emergenza è emergenza che si riduce all’interruttore sì/no, sì ti salvo, no non ti salvo, pertanto anche la stessa attività di polizia, nel momento in cui viene condotta in mare chiama in causa abbordi, avvicinamenti, manovre pericolose tali da poter compromettere la vita delle persone”.

E ancora, in un’altra intervista: “Sottoporre i soccorsi alla supervisione di polizia apre la strada a tragedie come a Crotone (…) È come se di fronte a un incendio che sta divorando case e persone si invia la polizia che deve identificare il piromane. No, si devono chiamare i vigili del fuoco”.

La magistratura valuterà i profili della responsabilità penale connessi a questa vicenda, ma dal punto di vista politico sembra difficile immaginare che l’imbrigliamento nelle maglie della repressione di polizia della gestione delle migrazioni via mare (ma anche di quelle via terra, se si è disposti a guardare la gravità di quanto accade sul confine dei Paesi Balcani) non c’entri nulla con le tragedie che si sono consumate nel Mar Mediterraneo, non più mare nostrum ma cimitero di frontiera.

Il filo logico che lega silenzi, frasi scomposte, colpevolizzazioni e politiche repressive si presenta come inossidabile e insensibile tanto alle valutazioni di esperti e studiosi quanto al buon senso. Si arriva così alla soluzione delle soluzioni, che permetterebbe di dare un’àncora all’illusione di poter fermare le partenze: aumentare le pene e le aggravanti per i cd. scafisti. O meglio, per i trafficanti, giusto per aggrapparsi al termine usato da Papa Francesco. Ma anche i papi sbagliano: parlare di trafficanti è scorretto dal punto di vista giuridico e induce a errori nell’interpretare la realtà. È una questione tecnica, ma che ha una rilevanza politica enorme che vale la pena esplicitare.

Nella legislazione penale si parla di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare: in inglese si utilizzerebbe il termine smuggling, perché trafficking è riservato a chi è coinvolto nella tratta di esseri umani già ridotti o allo scopo di riduzione in schiavitù (si pensi alla tratta di donne immesse nel mercato della prostituzione). I trafficanti, dunque, se proprio vogliamo utilizzare questo termine, sono coloro che, mi si conceda qualche approssimazione, sono coinvolti nel trasferimento in Italia di persone ridotte o per ridurle a schiave; è questo il delitto di tratta di esseri umani, in cui violenza, minaccia e coercizione sono sempre implicate. Diversamente, il favoreggiamento dell’immigrazione irregolare riguarda chi promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato o compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso. Il fatto di reato è più grave se il numero di persone trasportate è uguale o superiore a 5, se la persona è stata esposta a pericolo per la sua vita o incolumità o a trattamento inumano o degradante, se gli autori avevano disponibilità di armi o se erano almeno in 3, ma alla base del reato di favoreggiamento non c’è, di per sé, alcuna minaccia o costrizione fisica: al contrario c’è la fornitura di un servizio illegale di trasporto a persone che vogliono spostarsi e non hanno altro modo per farlo. Pur di lasciarsi alle spalle la disperazione, sono disposte ad affidarsi a persone o a organizzazioni più o meno strutturate che, in funzione del rischio di essere scoperte, dell’incremento dei guadagni e dell’urgenza di chi parte, aumentano i costi del trasporto, rendono peggiori le condizioni del viaggio (per esempio obbligando a stare rinchiusi per giorni in spazi angusti prima di essere imbarcati o utilizzando gommoni o barche di fortuna) e trasferiscono i rischi sugli stessi trasportati (per esempio, facendo condurre a qualcuno di loro la barca). Siamo in presenza di un mercato illegale che risponde a una domanda di trasporto e in cui l’offerta si modula in relazione a disponibilità, rischi, urgenze, reputazione e monopoli affermatisi sul campo.

Pensare di impedire le partenze aumentando ancora le pene o le aggravanti per chi è coinvolto in questo servizio illegale di trasporto, spesso nelle sue diramazioni ultime, è l’ennesima illusione a cui ci ha abituati un uso maldestro del diritto penale. Ma è anche qualcosa di più preoccupante.

È il paravento per non assumersi la responsabilità politica di aver creato un sistema di governo delle migrazioni talmente ancorato all’idea del migrante pericoloso da non riuscire neppure a immaginarsi che tra il diritto di scappare da guerre, oppressioni, discriminazioni e il diritto di presentare una domanda di protezione internazionale c’è di mezzo la necessità di un viaggio che, in assenza di alternative legali, non può che alimentare un’offerta di trasporto illegale, perlomeno in alcune sue fasi.

Eppure, per i profughi ucraini non solo lo si è immaginato, ma si sono create le condizioni perché questo mercato illegale non ci fosse. E, allora, più che mancanza d’immaginazione, forse il motivo di tanta resistenza a cambiare politica è un altro: la paura di perdere le basi della propria legittimazione politica.

Redazione "La Città"

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