Curve razziste (da chiudere) lo specchio del Paese
Dopo quanto visto nella baruffa, alla fine della gara di Coppa Italia tra Juventus e Inter con il volare di pugni e schiaffi, credo che la germinazione di malattie perniciose abbia raggiunto un grado di contagiosità tale da interessare anche i centri medici societari che si occupano della salute (mentale?) dei giocatori. Oramai non si tratta più di un caso sporadico ma di una tendenza che andrebbe analizzata dai più fini professori. I soggetti da esaminare sono soprattutto i calciatori.
Dei milionari, resisi responsabili di una rissa paragonabile solo alle scazzottate da balera degli anni ’50. Questi energumeni andrebbero duramente puniti, non solo dalla FIGC ma dalle stesse società di appartenenza. Diciamo, a scanso di equivoci, che l’attaccante dell’Inter, Lukako, nella sua esultanza (pur sanzionata dall’arbitro) sia rimasto ben al di sotto delle molte ottave che poi, con lui stesso coinvolto, hanno elevato il tono di una “suonata” invereconda.
Purtuttavia, tutto ha un’origine. Poiché tutti adesso imitano, facendo l’occhiolino al tifo organizzato, comportamenti e modalità teppistiche di cui c’è poco da andare fieri per un Paese che pare fondato sul tifo più che sul lavoro. Ogni tanto mi prende la sindrome lamalfiana e tendo a ricordare: “Io l’avevo detto”. In alcuni salotti televisivi, per esempio, abbiamo ascoltato che i cori di Torino “non erano razzisti” ma andavano ricondotti alla maleducazione, l’ignoranza della gente, dei tifosi”. Io ho un altro parere.
In molti anni di frequentazione degli stadi, da cronista e non da tifoso con il microfono (tengo a dirlo) posso testimoniare che il tono delle urla e quello di gente non diversa (per struttura culturale) da chi si esprime, seppure più sommessamente, al bancone dei bar. Lo si coglie, per esempio, quando si parla di rom, di nordafricani, di rumeni, di cingalesi, di filippini, di asiatici in genere. Si tratta, ineludibilmente, di una cultura di stampo razzista. Perciò è abbastanza chiaro con chi abbiamo a che fare.
Ci viene un suggerimento: perché le società di calcio, spesso vittime, non reagiscono, semplicemente, cessando la vendita di blocchi di abbonamenti a gruppi organizzati anche per settori adesso riservati agli ultrà? Vedo già sorridere gli sgamatissimi dirigenti. Costoro tutto sanno, i millantatori dell’oculata gestione calcistica: se condotte allo stesso modo le loro aziende, chiuderebbero dopo trenta secondi. “Ma non si può”, direbbero. È una questione di ordine pubblico, farebbero notare, “provocherebbero incidenti”, ammonirebbero.
Già! Le forze dell’ordine servono solamente a controllare le manifestazioni dei disoccupati. Chi detiene il borderò di sala? Le società, è ovvio. Pertanto l’assegnazione dei posti (in certi settori dello stadio) non dovrebbe tener conto di prelazioni, diventate ereditarie e tramandate da banda a banda. Bisognerebbe riaffidarle al libero mercato. Svuotare le curve non significherebbe chiuderle e giocare a porte chiuse. Al contrario. Si possono aprire alle famiglie. Occasione per rendere più vivibili e moderni gli stadi. Gli ultrà si arrabbieranno? Facciano pure. Liberissimi. Per rivendicare che cosa? Il posto “fisso” allo stadio? Non scherziamo.
L’unico posto fisso per cui è legittimo lottare è quello di lavoro. Alla fine vi racconto un sogno, in un dormiveglia di tanto tempo fa: si gioca Juventus-Inter, a Torino. La partita è in corso. Si alza il grido razzista. Del Piero afferra la palla con le mani e corre verso il settore dei suoi tifosi gridando “basta!”. Così sognavo…nel 2009. Non mi voglio svegliare, continuando a fantasticare di una società civile.