Detenuti in scena raccontano la loro rinascita. Dalla caverna alla luce
Alle sette della sera inizia a piovere piano. C’è ancora molta luce nonostante le nuvole che rapide passano l’orizzonte e non promettono nulla di buono. In fila davanti al blocco centrale del carcere di Opera c’è una fila di persone in attesa di entrare. Nel teatro interno al penitenziario più grande d’Italia c’è uno spettacolo scritto e realizzato dai detenuti e la curiosità è tanta.
Gli spettatori sono studenti, professori e laureati dell’Università Bocconi di Milano. Un pubblico raffinato, colto. Non è la prima volta che accade, i carcerati invitano i “civili”, offrono uno spettacolo, raccolgono offerte che poi devolvono a chi ne ha bisogno. E’ la politica del doppio binario, che pare funzionare ed appassionare, introdotta da Silvio Di Gregorio, direttore del carcere. Lui crede molto all’idea del recupero attraverso un constante scambio con chi sta fuori dalle sbarre. E alla restituzione benefica del lavoro dei reclusi a favore del mondo esterno.
Sta di fatto che superati i controlli, il pubblico entra in galera a gruppi, accompagnato dagli agenti di polizia penitenziaria. Il teatro è una sala accogliente e piuttosto capiente, la si raggiunge una volta attraversato il grande cortile interno. Si passa a fianco del reparto più discusso e spaventevole, il 41 bis, ma in pochi sanno, che è proprio a qualche metro dai loro passi, che vivono in completo isolamento molti boss venuti agli onori delle cronache. La Galleria delle Opportunità invece è un lungo corridoio che porta ai reparti e proprio poco avanti sulla sinistra c’è il teatro. La sala si riempie in pochi minuti, l’atmosfera è quella delle grandi occasioni.
Gli attori lo sanno, alcuni si aggirano nei dintorni del palco, altri uomini della compagnia stanno in fondo alla sala, saranno incaricati di gestire luci e suoni. Gli agenti, discreti e gentili, indirizzano subito chi arriva ad accomodarsi, per evitare che vengano a contatto coi detenuti. Dietro le quinte la compagnia è quasi al completo. Sorridono, qualche battuta per scacciar via la tensione, sono tutti di nero vestiti, per qualche ora hanno abbandonato i loro abiti comodi, le loro tute da ginnastica, il loro solito via vai negli spazi ristretti del reparto alta sicurezza.
C’è Pasquale, 50 anni, studente proprio alla Bocconi e in cella da venti. Per lui è l’occasione per far notare a suoi professori in sala di aver la stoffa da vendere nel ruolo di manager. Organizzare un gruppo di detenuti con pene pesanti e molti anni passati dietro le sbarre, motivarli e farli recitare è cosa possibile. E infatti sta accadendo. Anche Luigi, un altro storico del gruppo conferma che tutto è possibile basta volerlo.
Il gruppo (Anime SoSpese, così si chiama) si è formato durante il periodo del covid. Tutta l’Italia reclusa in casa e a loro non sembrò vero. E così hanno iniziato a pensare a qualcosa da fare per superare la crisi e per darsi qualche itinerario culturale che valesse la pena di essere vissuto. Sono una trentina di persone. Tutti insieme, per la statistica carceraria, corrispondono a di decine e decine di anni di reclusione. Come uomini, invece, sono protagonisti di infinite attese, di sofferenze, di tentativi di riscatto, di fallimenti e rinascite ma anche di tanta allegra speranza.
Portano in scena il “Dramma della caverna”, un pièce che oltre a recitare hanno anche scritto di loro pugno. C’è Angelo, il filosofo del gruppo, non è sul palco ma nelle ultime file. Da lui passa gran parte della creatività di quest’opera introspettiva e potente. Le luci si spengono. Non recitano affatto male, alcuni sono facilitati dal fatto di essere napoletani, ritmo e gestualità non mancano. Il dramma è fresco, pieno di note di colore, a tratti divertente, per nulla ridondante o retorico.
C’è tutto lì dentro. Hanno avuto un’idea semplice ma geniale i ragazzi, hanno raccontato di come nasce un gruppo del genere, di come si esce dal silenzio (dalla caverna) dei propri giorni tutti uguali e tristi, dalla rassegnazione e dall’oblio di una vita murata, alla creazione di qualcosa di nuovo. Del tentativo di tornare alla vita, di ridisegnarla e di usare la cultura come piccone salvifico.
Scene evocative, canzoni toccanti, speranza e testi mai banali. Hanno fatto il miracolo i detenuti dell’alta sicurezza. Niente da dire. Domenico, Francesco, Daniele, Rocco, Angelo e molti altri, ognuno modo suo. Il pubblico applaude, nei tre atti non c’è stato spazio per la noia, per la delusione, per qualche distrazione. Gli occhi puntati sul palco e molti erano lucidi. E quando è così significa che è andata, anche parecchio bene.