23 Novembre 2024

Il giornale di Cinisello Balsamo e Nord Milano

Mais, siccità, alluvione e altri disastri

di Ottavio D’Alessio Grassi
LAV Monza e Brianza

Ovunque, viaggiando per la Pianura Padana, si possono facilmente osservare nella stagione estiva grandi distese di campi coltivati a mais, al punto che istintivamente verrebbe da pensare che la polenta sia improvvisamente tornata ad essere l’alimento base, pressoché quotidiano, della cucina povera di un tempo, tipica delle popolazioni contadine del nord Italia.

Ovviamente così non è. Da molto, molto tempo, la polenta ha perso quell’antica funzione ed è diventata, nelle odierne abitudini alimentari degli italiani, un piatto d’eccezione, una sorta di prelibatezza da servire in certe occasioni particolarmente conviviali. E dunque, perché coltivare tutto quel mais? Chi se lo mangia? Pochi se lo chiedono. Il mais è la principale materia prima usata in Italia per la produzione di mangimi. Quando vediamo un campo di mais, dobbiamo pensare che solo un’infima fetta di quel campo è destinata al consumo umano.

Il resto è destinato agli animali degli allevamenti intensivi. Che cos’ha a che vedere il mais con i cambiamenti climatici e le relative conseguenze? È presto detto: il 70% della superficie agricola dell’Unione Europea è destinato alla produzione di mangimi per animali. In pratica, quasi due terzi dei terreni agricoli vengono utilizzati non per produrre cibo per le persone, ma mangime per gli animali che le persone mangiano. Il mais la fa da padrone. In Italia, infatti, oltre il 40% dei mangimi che diamo agli animali è composto da mais. Il resto è grano, orzo, semi oleosi, crusca, oltre che integratori e… antibiotici.

Il fattore numerico che evidenzia il gigantesco spreco di cibo vegetale, di terreni agricoli, di grandi quantità d’acqua, fertilizzanti, pesticidi, ecc. è il seguente: per produrre un solo chilo di carne bovina se ne vanno dai 13 ai 15 chili di cereali. Sarebbe come inserire 15 Euro in una macchinetta per ottenere 1 Euro. Un’azienda privata, che investisse in questo modo le proprie risorse, sarebbe costretta a consegnare i libri in Tribunale nel giro di pochi giorni.

Questo fattore numerico, esteso su vasta scala, significa centinaia di milioni di animali, tra bovini, suini, ovini, avicoli – quindi un numero infinitamente maggiore della popolazione italiana – che consumano enormi quantità di mais e altri cereali, per coltivare i quali si sono sottratte vaste aree boschive; non soltanto, quindi, si è perduto un prezioso patrimonio di biodiversità, ma anche un’indispensabile sistema naturale di mitigazione del clima.

Più carne mangiamo e più animali alleviamo; di conseguenza, più suolo agricolo dovremo consumare per alimentarli e più dovremo deforestare. Una catena folle, perversa, senza fine, che bisogna urgentemente spezzare, partendo anche da ciò che mettiamo nel piatto. Peraltro, in natura le mucche non mangiano mais, mangiano l’erba. Ma mangiando mais, soia e altri mangimi, ingrassano più in fretta e prima ingrassano prima l’allevatore può venderle e mandarle al macello. Più in fretta ingrassano, più l’allevatore guadagna.

Nel bacino Padano, tra Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, si trova la più alta concentrazione di allevamenti intensivi di tutta Italia: giganteschi capannoni che contengono ciascuno migliaia e migliaia di animali, ammassati in condizioni spaventose, che non ci feriscono perché semplicemente decidiamo di voltare lo sguardo. Questi veri e propri lager, luoghi di permanente tortura, sono fonti di grandi emissioni di ammoniaca e metano e altri inquinanti dannosi per il clima e per la nostra salute, al punto che secondo uno studio ISPRA-Greenpeace del 2020, gli allevamenti intensivi si guadagnano il secondo posto sul podio delle attività più inquinanti del belpaese.

Per fare un raffronto, I veicoli a motore – che pur rappresentano una fetta importante dell’inquinamento nazionale – contribuiscono meno degli allevamenti a contaminare l’aria che respiriamo. Ma torniamo al mais, la cui coltivazione richiede quantità enormi di acqua, oltre che, come anzidetto, massicce quantità di fertilizzanti chimici e pesticidi. Si calcola che per ogni tonnellata di mais prodotto vengano sprecati oltre 100 mila litri d’acqua. In considerazione di ciò, non dovrebbe essere difficile comprendere quanto sia insostenibile utilizzare enormi quantità d’acqua, spremendo ogni estate i grandi bacini, per fronteggiare i sempre più lunghi periodi di siccità al fine di irrigare i vasti terreni agricoli coltivati a mangime per animali.

La filiera della carne – di cui la produzione di mangimi è parte integrante – è a livello globale responsabile di un quarto, e forse più, di tutte le emissioni climalteranti. Gli effetti dei cambiamenti climatici, nonostante l’opera di irresponsabili negazionisti, sono ormai sotto gli occhi di tutti. Lunghi periodi di siccità, con conseguenti crisi idriche, alternati a eventi alluvionali catastrofici, che ci fanno comprendere che anche da noi il clima si sta progressivamente tropicalizzando.

Le enormi quantità d’acqua, cadute in un periodo temporale così ristretto in Emilia-Romagna, avrebbero messo a dura prova i sistemi più virtuosi. Ma a rendere devastanti le conseguenze vi è la diminuita capacità assorbente della terra, causata sia dall’eccessiva cementificazione, ma anche dalla grave mancanza di alberi, dall’assenza di diffuse aree boschive, soprattutto perifluviali, che sono state soppiantate dall’occupazione di suolo agricolo funzionale al mantenimento degli animali da allevamento.

Come afferma Daniele Zavalloni, segretario del Fondo Biodiversità e Foreste, le esondazioni, storicamente e naturalmente benefiche, sono divenute rovinose, perché attorno ai fiumi abbiamo costruito città e capannoni, la terra assorbe sempre meno acqua, perché cementificata o sfruttata dall’agricoltura intensiva. E inoltre si tagliano gli alberi, sia in pianura che in collina, si fanno tagli a raso sugli argini dei fiumi, invece di rimuovere semplicemente i fusti morti. “Gli alberi che crescono sulle aree golenali o sugli argini sono benefici”, afferma Zavalloni “soprattutto quelli grandi che sostengono gli argini con le radici e rallentano la corsa dell’acqua.

Dobbiamo capire che un fiume in piena lanciato a tutta velocità senza nulla che lo freni o filtri è estremamente pericoloso, come lanciare un’auto a folle velocità in una strada con curve. È ovvio che prima o poi sbanda e finisce fuori”. La vegetazione, invece, consolida le sponde, contrastando erosione e franamento, frenando l’impeto della corrente e mantenendo l’acqua più a lungo sul territorio, mitigando così le piene a valle.

È del tutto evidente che, in attesa di cambiare sistema energetico, dobbiamo cambiare modello di agricoltura, e individualmente possiamo farlo agendo sulla domanda. Riducendo la domanda, cala l’offerta. E questo lo si può ottenere rinunciando a stili alimentari su base carnea che non fanno altro che perpetuare un sistema produttivo agricolo energivoro, con un’impronta idrica ormai insostenibile. Si parla di adattamento, ma adattarsi non può ridursi soltanto a costruire quelle opere, pur necessarie, di mitigazione dei fenomeni avversi. Come e dove, per esempio, riforestare se gran parte dei terreni sono  coltivati a mangime per animali? O se sono cementificati, se il consumo di suolo non si arresta e, anzi, non si inverte?

Le opere di mitigazione servono a proteggerci, ma se non trasformiamo, a partire dalle scelte individuali, il nostro modo di vivere e soprattutto di mangiare, non riusciremo a contenere il riscaldamento globale entro certi limiti, e di conseguenza la fatica dell’adattamento si rivelerà inutile. E non potremo che aspettarci scenari ben peggiori.

Perché, dunque, attendere le decisioni dei Grandi della terra, decisioni che non arrivano mai? Contro i ritardi della politica possiamo solo protestare, manifestare. Invece, come consumatori, possiamo decidere. Abbiamo infatti un’arma formidabile in mano: i consumi. USIAMOLA! Il cambiamento comincia da lì, da quello che mettiamo nel piatto. Passare da un’alimentazione prevalentemente carnea a una su base totalmente o prevalentemente vegetale è urgente e possibile. NON SERVE NEMMENO SCENDERE IN PIAZZA PER FARLO. FACCIAMOLO E BASTA. E intanto proviamo, per un momento, a immaginare come potrebbe essere la Pianura Padana, vista dall’alto, non con piccole oasi di bosco, strappate a forza, sparse qui e là, com’è oggi, ma con aree agricole circondate e inframmezzate da vasti territori boschivi.

Redazione "La Città"

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