22 Novembre 2024

Il giornale di Cinisello Balsamo e Nord Milano

Cavalli, figli del vento o carne da macello?

di Annamaria Manzoni – www.annamariamanzoni.it

Non di tutti i primati si può essere ugualmente orgogliosi: tra quelli di discutibile lustro vi è la posizione occupata dal nostro paese in relazione al consumo di carne di cavallo, visto che vantiamo (?) il triste record di esserne il primo consumatore in tutta l’Europa. Risulta che dei circa 250mila cavalli macellati ogni anno nell’Unione Europea, ben oltre 25mila (secondo alcune fonti fino a 35.000) lo sono in Italia: i dati assolutamente imprecisi e diversificati a seconda che facciano capo all’ISTAT o al Ministero della salute, testimoniano la mancanza di un’anagrafe chiara e trasparente, che sarebbe invece indiscutibilmente necessaria (https://www.equestrianinsights.it/non-tornano-i-numeri-del-consumo-di-carne-di-cavallo-in-italia-nel-2020) .

In ogni caso i numeri, per quanto enormi in assoluto, sono nettamente inferiori a quelli di altre specie animali di cui normalmente le persone si cibano, perchè mangiare carne di cavallo non è ritenuto normale persino da una parte di chi non si fa scrupolo ad alimentarsi con altri animali. Non si può dimenticare, a questo proposito, che non sono pochi i paesi che non lo considerano lecito: a fare inizio dall’Inghilterra, dove la carne equina costituisce un tabù e produce una forte ripugnanza verso chi la consuma. Al traino, qualcosa di analogo ha luogo nei paesi di lingua anglosassone, che quindi hanno visto nel corso dei secoli forme di occupazione inglese (Stati Uniti, India, Australia) dove il cavallo è sempre stato considerato un animale d’affezione o da competizione.

Tanto che nel 2013, quando scoppiò lo scandalo di prodotti contaminati con carne di cavallo, consumata quindi a propria insaputa dalla gente, la cosa ebbe forte risonanza soprattutto in Inghilterra e in Irlanda. Evitiamo comunque di palpitare di ammirazione per le posizioni protettive di questi paesi dal momento che gli animali, non mangiati in loco, vengono comunque esportati in altre nazioni meno selettive, dove la loro sorte è sempre segnata.

Se il consumo di carne equina, sostenuto dalla convinzione che abbia particolari caratteristiche nutritive, in quanto povera di grassi e ricca di ferro e zuccheri, è considerato un tabù anche in Brasile, Israele, tra i Rom e gli Ebrei in tutto il mondo, in Italia, come già detto, non lo è, ma i negozi dove viene venduta espongono la scritta Macelleria equina, differenziandola quindi dalle altre macellerie. Questo per un motivo riferito ad un vecchio decreto (1929) a salvaguardia della salute umana, perchè si riteneva che i cavalli, più di altri animali, fossero portatori sani di Salmonella, in quanto venivano macellati a fine carriera spesso malati e traumatizzati.

Gli esperti assicurano che il rischio non esiste più in quanto oggi ad essere macellati sono soggetti giovani di non più di 3 anni, puledri insomma. Ma al di là delle preoccupazioni salutiste una pur parziale ritrosia al suo consumo chiama in causa, anche in Italia, altre considerazioni, riferite allo status, alla considerazione che abbiamo dei cavalli stessi. Il discorso parte dalla zooantropologia, vale a dire quella disciplina che si occupa del rapporto tra uomo e animale, che mette in luce la posizione assolutamente particolare del cavallo, considerato dalla legge animale da reddito, ma da molte persone animale da affezione.

Occupa quindi una posizione del tutto anomala rispetto alla netta distinzione che le leggi sostengono tra animali da compagnia, protetti almeno parzialmente dalla legislazione vigente (legge 189/2004), e quelli che invece sono allevati per l’alimentazione, soggetti a trattamenti che solo un enorme processo di rimozione rende accettabili. La situazione attuale prevede che sia il proprietario stesso a decidere se dichiarare il suo cavallo DPA, vale a dire Destinato alla Produzione Alimentare, oppure Non DPA, Non

Destinato alla Produzione Alimentare. Ancora una volta sono preoccupazioni salutiste a marcare la differenza: gli animali destinati per esempio alle corse vengono abitualmente trattati con farmaci, legali o illegali che siano, di solito antinfiammatori, che risulterebbero poi estremamente nocivi per le persone che se ne nutrissero. Mentre quelli definiti da subito come Impresa Alimentare, non possono subire lo stesso trattamento proprio in difesa del futuro consumatore; potrebbero comunque passare all’altra categoria nel caso venisse modificato il loro trattamento, mentre è vincolante la scelta di registrarli come Non DPA: una volta “inquinati” non sono più edibili.

Ciò non toglie che esistano ampie zone fraudolente che vedono l’abituale agevole falsificazione dei documenti, come fu reso noto per esempio già in un ormai datato servizio delle Iene (3 maggio 2017), che, preso spunto dal caso di una ragazza che scopre che la sua cavalla, per la quale aveva cercato una sistemazione, è in realtà finita ad un macellaio, si è allargato ad illuminare una realtà diffusissima, che coinvolge migliaia di animali ogni anno, nel silenzio assenso delle istituzioni, posizione a cui siamo ahimè oltre modo abituati. Lasciamo ogni illusione che, nel frattempo, la situazione abbia potuto modificarsi : è un più recente servizio televisivo (2021) a eliminare eventuali dubbi residui ( https://video.sky.it/news/cronaca/video/carne_di_cavallo_cosa_arriva_davvero_in_tavola-278484): nulla pare essere cambiato.

Allo stato attuale delle cose, in Italia esistono disegni di legge che vorrebbero superare la distinzione esistente, facendo definitivamente entrare il cavallo tra le specie d’affezione, il che ne impedirebbe finalmente la macellazione e il consumo alimentare: ma conosciamo fin troppo bene i tempi biblici che i cambiamenti legislativi possono comportare in Italia quando vanno a toccare gli interessi di qualche categoria. Il che cronicizza lo stato delle cose, e con essa il destino di centinaia di migliaia di animali, fino a data da destinarsi.

Stato delle cose che apre il campo ad alcune osservazioni di non poco conto: vale a dire: la disponibilità e il piacere di mangiare certi animali e non altri non dipende dal gusto, né dalle caratteristiche della carne, ma dalla considerazione che abbiamo di loro. Il caso degli equini diventa sintomatico in quanto nello stesso paese lo stesso animale gode da parte di alcuni di un’ affezione analoga a quella destinata in generale ai pet, nonostante i cavalli non sviluppino un attaccamento alle persone uguale a quello che è per esempio appannaggio di cani o gatti: non vogliono certo dormire vicino a noi, devono essere chiusi nei recinti altrimenti se ne vanno, ed è francamente poco probabile che qualcuno, in cerca di compagnia, scelga di comperarsi un cavallo.

Da parte di altri sia invece equiparato a mucche, maiali, polli e a tutti gli altri, fatti nascere solo per essere trasformati in cibo. A seconda della considerazione che nutriamo nei loro confronti, quindi, il mangiarli diventa normale o invece inammissibile. Si tratta di una situazione bene fotografata nelle pagine di apertura del libro di Melanie Joy “Perchè amiamo i cani, mangiamo i maiali, indossiamo le mucche” (Sonda 2012) : nel corso di una immaginaria cena tra amici, quando uno dei commensali si complimenta con la padrona di casa per l’ottimo secondo e ne chiede la ricetta, si sente rispondere che si tratta della carne di un retriever, razza canina molto diffusa e amata, apprezzata per la sua dolcezza. La risposta crea scompiglio, disgusto, voglia di vomitare. Eppure il piatto era risultato particolarmente gradevole. Il motivo di questa apparente anomalia sta tutto, dice l’autrice, nella nostra percezione di che cosa è, anzi meglio: di chi è quella carne che stiamo mangiando.

In altri termini la risposta alle domande contenute nel titolo deve riferirsi allo status della vittima: i cani non li mangiamo perchè li conosciamo e li amiamo, ci conviviamo, abbiamo un rapporto amicale con loro. I maiali, i polli, le mucche e tutti gli altri li teniamo a distanza, molti li disprezziamo e li insultiamo: grasso e sporco come un maiale; cervello di gallina, vacca come sinonimo di prostituta e chi più ne ha più ne metta sono espressioni comuni che diffamano gli animali a cui sono riferite, nella totale indifferenza delle loro reali caratteristiche di specie, lontanissime dalla rappresentazione che ne facciamo. E così tutti quegli animali, essendo sporchi e cattivi, stupidi e volgari, addirittura immorali (sic!), ci autorizzano a trattarli come ci pare, a fare di loro quello che vogliamo. Appunto: li uccidiamo, meglio, li facciamo uccidere perchè siamo troppo sensibili per farlo di persona, e li mangiamo senza sensi di colpa né disgusto.

Insomma le nostre vittime devono meritare la fine che facciamo loro fare: se sono indegne, ci sentiamo autorizzati ad infierire su di loro o a non farci carico della loro sofferenza. Bene ce lo insegna, nel corso delle guerre, la demonizzazione del nemico, necessaria ad aprire la strada alle violenze su di lui. Ma anche l’indifferenza sulla sorte di immigrati che annegano come mosche nel Mediterraneo, perchè la loro rappresentazione come umanità di serie B, vite che valgono poco o forse niente, ci giustifica ad uno sdegno infinitamente inferiore a quello riservato ai cittadini occidentali. (si veda “Noi abbiamo un sogno” di A. Manzoni, Bompiani 2022). Tornando ai cavalli, davvero la loro posizione, il loro status (in qualche modo assimilabile a quello dei conigli da quando, in tempi recenti, vengono da alcuni considerati pet) sono sintomatici del potere che il nostro modo di pensare, la nostra scala valoriale, possiedono: mi piaci e quindi ti attribuisco diritti, non mi piaci e quindi ti mando al macello: il padrone sono io.

Nel nostro atteggiamento nei confronti dei cavalli le zone d’ombra del nostro agire sono enormi e sarebbe necessario aprire un altro grande file: per esempio sulla declinazione del concetto di amore tanto sbandierato da chi si erge in loro difesa, e che in genere li usa per le corse o l’equitazione in generale: è suggestiva e vivida nel nostro immaginario l’immagine del cavallo, simbolo di forza, potenza, vitalità, celebrato mentre corre libero, criniera al vento, tutta la sua esuberante energia, se ne impossessa e lo trasforma secondo i propri bisogni e desideri: in una parola lo doma, gli spezza lo spirito vitale e lo riduce alla propria mercè. E lo chiamano amore. Un amore che si serve, per estrinsecarsi, di briglie, morso, speroni, paraocchi e, soprattutto e sempre, di frusta: è utile forse far sapere che un video sull’educazione al dressage, giusto per mostrare animali che si muovono al ritmo di una danza, è stato oscurato da Facebook per la sua inaccettabile crudeltà. A rifletterci un po’ il paragone con i quasi quotidiani episodi di amore criminale, quelli in cui un uomo innamorato uccide la sua compagna, suggerirebbe tanti elementi di approfondimento.

La lunghissima storia della relazione tra uomo e cavallo, che inizia migliaia di anni fa e si estrinseca nella sua domesticazione, vale a dire nella riduzione al nostro servizio, offre infinite altre considerazioni. Vale la pena qui concludere richiamando l’immagine che probabilmente ha commosso molti di noi sui banchi di scuola, forse da rivisitare alla luce della situazione attuale: è quella della Cavallina Storna, che Giovanni Pascoli ci ha raccontato selvaggia, nata tra i pini su la salsa spiaggia, con gli spruzzi del mare nelle frage e gli urli negli orecchi, con la marina brulla nel cuore, nata nelle selve tra l’ondate e il vento, fiera. Proviamo a ripensarla davanti a tutti i cavalli aggiogati per trainare calessi turistici, frustati per correre di più verso traguardi ambiti solo dagli umani, condotti terrorizzati e feriti a quei macelli con cui abbiamo colonizzato tanti pezzi dei nostri paesi. Proviamo a ricordarcela e ad alzare il velo sulle tantissime realtà che riguardano la vita (e la morte) dei cavalli, quei figli del vento indomiti e coraggiosi, ogni giorno resi schiavi da quel  bisogno di dominare la natura, che pare essere paradigma costitutivo del pensiero moderno.

Redazione "La Città"

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