Marisa Musu, dalla lotta partigiana all’impegno per la pace in Medioriente
Dopo un’ennesima giornata piovosa, percorro il marciapiede bagnato di via Marisa Musu, in centro a Cinisello, accanto alla sede comunale. C’è tristezza nell’aria, ho negli occhi le tragiche immagini dei bombardamenti a Gaza di questi giorni, dei corpi avvolti in bianchi sudari, dei bambini che tremano, con gli occhi atterriti, delle madri che piangono dignitosamente abbracciando i corpi dei loro figli, in un dramma che da anni sembra non finire mai.
Mi fermo a pensare a Marisa Musu, alla quale è intitolata questa strada; proprio domani ricorre l’anniversario della sua morte: era il 3 novembre 2002. Marisa, che dopo la prima Intifada si era recata più volte in Palestina e aveva raccolto con il marito Ennio Polito i dati per il loro libro uscito nel 1991: I bambini dell’Intifada. Venti storie di ragazzi palestinesi. Un’indagine sull’infanzia nei territori occupati. Da quell’anno fino al 1995 era stata responsabile della rivista Balsam, che forniva informazioni sulle condizioni sanitarie nei territori occupati. A novembre del 2000, un mese dopo lo scoppio della seconda Intifada, chiamò Marina Rossanda per proporle di andare insieme a riprendere i contatti con i palestinesi (la Rossanda, già medico primario dell’Ospedale di Niguarda, nel 1982 aveva fondato l’Associazione Medica italo-palestinese). All’Ospedale Ahli di Hebron videro una ragazzina quattordicenne di nome Ghazala, ancora in coma per una pallottola in testa. Tornando a casa da scuola era stata gravemente ferita da un soldato israeliano. In un primo momento i medici ne diagnosticarono la morte cerebrale. Venne operata d’urgenza e dopo un lungo periodo di degenza si salvò. Il suo nome rappresentava un simbolo di speranza e per questa ragione a Marisa venne l’idea della campagna per Gazzella. Quell’anno con Marina fondò l’Associazione Gazzella con la volontà di portare un aiuto anche minimo ai bambini palestinesi. Fu organizzata, con i modesti mezzi a disposizione, una campagna di adozione a distanza temporanea che potesse portare loro un seppur minimo sollievo. Si gettò anima e corpo in questo progetto senza risparmiarsi. Progettava un nuovo viaggio in Palestina per Natale. Voleva rivedere i suoi bambini, come li chiamava: Muadh, Kifah, Arzak, Wadi…, li rammentava uno per uno, storpiava, ridendo, i loro nomi, raccontando l’ammirazione per le loro madri. Ma purtroppo agli inizi di novembre Marisa Musu morì. Era malata da un po’ e avrebbe dovuto risparmiarsi; come scriveva Marina Rossanda: “Nessuno mi convincerà che la grande fatica di questa operazione, condotta in un ambiente certo assai inquinato, e il correre su e giù per l’Italia per sostenere la campagna non abbia qualche responsabilità nel riattivarsi del suo male, apparentemente domato. Lei lo sapeva benissimo di rischiare”.
1990, Palestina, con la pittrice australiana Janet Von Brown
Fu l’ultimo impegno di Marisa Musu, l’ultimo di una vita vissuta sempre con passione e coraggio, secondo i valori in cui credeva. Era nata a Roma il 18 aprile 1925 da una famiglia di origine sarda e antifascista. Nel 1942 entrò nell’organizzazione clandestina del Partito Comunista Italiano. Fu tra i protagonisti della lotta per la difesa di Roma occupata dai nazisti. Con il nome di battaglia Rosa fece parte della formazione G.A.P. (Gruppi di Azione Patriottica) guidata da Franco Calamandrei. Portò a termine molte azioni contro gli occupanti, venne arrestata e incarcerata. Condannata a morte dal Tribunale di guerra nazista, fingendosi malata, riuscì a farsi trasferire all’Ospedale San Camillo, prima che la sua vera identità fosse scoperta. Da lì evase grazie all’aiuto di alcuni medici antifascisti. Al termine della guerra fu insignita della Medaglia d’Argento al Valor Militare. Sulla Resistenza a Roma scrisse due libri, in collaborazione con il marito Ennio Polito: La ragazza di via Orazio e Roma ribelle.
Figura intellettualmente e politicamente poliedrica, dopo la Liberazione lavorò nel movimento giovanile comunista. Nel 1956, con i fatti di Ungheria, dissentì dalla linea del P.C.I., abbandonando gli incarichi di partito per passare alla professione di giornalista. Lavorò a Paese Sera, a L’Unità e a Liberazione. Fu inviata per due anni a Pechino, in Vietnam, a Praga nel 1968, in Mozambico e in Palestina. Col tempo nei suoi articoli cominciava a trasparire un interesse crescente per la scuola, la pedagogia e la formazione educativa dei giovani. Divenne direttrice de Il Giornale dei Genitori. Marisa Musu amava i bambini e per questo si dedicò a lungo ai problemi della scuola; nel 1976 fu fondatrice, con Gianni Rodari, del Coordinamento Genitori Democratici. Divenne componente del Consiglio Nazionale degli Utenti e del Comitato di Vigilanza TV e Minori presso la Federazione Radio Televisioni.
“Se sono serena, non è solo perché ho fatto tante piccole cose e, nel farle, ho incontrato uomini e donne e con loro ho vissuto e lavorato per qualcosa che credevo giusta. Sono serena perché incorreggibile ottimista, sono convinta che le grandi cose che hanno costituito il filo conduttore del mio impegno – la fine delle ingiustizie sociali, una reale uguaglianza tra i popoli, la libertà, la pace – e quelle che sono venute dopo – un mondo libero dall’inquinamento, rispettoso delle leggi della natura, multietnico – ci mettono, per realizzarsi, più tempo di una vita, della mia certamente, ma alla fine si compiono”. Marisa Musu.
Mi aggrappo a queste parole che ho letto in un suo libro per cercare di vedere oltre il buio di questi giorni.
1949, Cinisello Balsamo, cort del popul, con Giuseppe Alberganti